Esiste un posto nel mondo che parla solo a chi sa scoprirne il fascino, una terra accarezzata dalla brezza dello Scirocco o del Maestrale, l’isola di Pantelleria. Un racconto affascinante, un racconto di mare: il racconto di una meravigliosa scoperta subacquea.
Estate 2011
Dopo due lunghi anni di studi Arcus SpA, ai tempi società del Ministero dei Beni Culturali, stanzia una somma per finanziare un progetto per valorizzare e scoprire i siti sommersi di Cala Tramontana, a Pantelleria. Della realizzazione del progetto vengono incaricati il Consorzio Pantelleria Ricerche, la Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana, la Soprintendenza dei Beni Culturali di Trapani ed il Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari.
Secondo il racconto di Leonardo Abelli, archeologo di Ares Archeologia e direttore scientifico del progetto, durante una delle tante ricognizioni, l’attenzione dell’esploratore subacqueo Francesco Spaggiari, direttore tecnico del Diving Cala Levante, viene catturata da uno strano luccichio verdognolo, proveniente da una roccia appoggiata su un pianoro sabbioso a 14 metri di profondità. E’ una moneta bronzea e, sotto un velo di sabbia, ce ne sono una piccola manciata.
Le acque turchesi di Cala Tramontana nascondevano un tesoro, vecchio più di 2300 anni!!!
Nel luglio del 2011 scrivevo questa storia per raccontare una scoperta molto importante nel mondo dell’archeologia subacquea ma soprattutto per dimostrare tutta la mia gratitudine verso un’isola che mi ha accolto, mi ha emozionato e mi ha fatto sentire a casa per molto tempo.
E per manifestare il mio affetto verso un amico che non c’è più e la mia stima nei confronti di un subacqueo che per molto tempo è stato il mio unico punto di riferimento.
Questa storia è stata pubblicata sull’edizione di ottobre del magazine SUB.
Eccola:
Succede che dodici anni fa, un giovane subacqueo di Parma, nel pieno vigore e con l’incoscienza dei vent’anni, approdi qui per aprire, insieme ad altri due soci, un centro immersioni.
E succede anche che il giovane subacqueo incontri un uomo del luogo, al primo impatto aspro e scorbutico, proprio come lo è la sua isola. Quest’uomo è il depositario dei segreti del mare.
E così, nelle lunghe e fresche serate estive, sul terrazzo sotto un “cannizzato”, di fronte ad una birra ed accarezzati dalla brezza del maestrale, l’uomo decide di aprire lo scrigno dei suoi segreti.
Gli insegna a conoscere i venti e a prevederne l’arrivo, gli mostra i luoghi ove la corrente proveniente da nord ovest incrocia quella proveniente da sud est, il punto esatto in cui il pesce pelagico trova il suo ideale terreno di caccia. Gli dipinge con le parole i fondali, con le sue lunghe lingue di roccia lavica, i suoi anfratti e le tane preferite da sua maestà dei mari, la cernia bruna del Mediterraneo.
Soprattutto gli racconta che lo specchio turchese del suo mare nasconde ancora dei segreti che possono spiegare la storia della sua isola, così fortemente legata alla sua posizione geografica e al mare.
Vent’anni prima, il fondale della baia di Cala Tramontana era completamente ricoperto da anfore in terracotta. I pionieri del turismo isolano iniziarono a portarle in superficie, all’inizio per adornare i loro dammusi appena ristrutturati, successivamente per farne dono agli amici ed infine creando un commercio clandestino che per taluni produsse ricchezze.
Ma il mare, geloso dei suoi tesori, ne ha mantenuta una scorta; la conserva là, dove solo chi lo merita potrà arrivare.
Così, quest’uomo aspro e scorbutico, decide di spiegare al ragazzo i segreti per ritrovare le anfore. Gli insegna ad osservare il mare, i giochi di luce soffusa durante l’immersione e le ondulazioni non uniformi della sabbia sommersa. E lui inizia a perlustrare.
Trascorrono le stagioni, passano i turisti, distratti bagnanti nella cala dei tesori. Il giovane, con tenacia, perseveranza e passione, accresce le sue conoscenze e le sue competenze in immersione. E inizia a cullare il suo personalissimo sogno: diventare un esploratore subacqueo.
Scopre nuovi siti archeologici, giacimenti di anfore puniche o romane; individua ceppi di ancore in piombo adagiati dolcemente sul fondale. E poi macine ed altri strumenti in pietra, finemente levigati, utili per svolgere le più impensabili mansioni durante la navigazione.
Organizza la prima grande missione esplorativa subacquea in Sicilia, durante la quale si scopre una vasta area, a novanta metri di profondità, ricoperta da anfore.
E a questo punto l’esploratore subacqueo incontra un giovane archeologo, anche lui originario di Parma ma trapiantato in Romagna, anche lui sbarcato a Pantelleria per coltivare il suo sogno.
Sin dai suoi primi anni di studi, prima presso la facoltà di Archeologia dell’Università di Ravenna e poi presso quella di Sassari dove ha conseguito il dottorato in ricerca, si è occupato della redazione della carta archeologica dell’isola.
Negli anni che seguono, il giovane ricercatore partecipa agli scavi del villaggio tardo antico romano nella zona sud ovest.
Realizza gli itinerari archeologici subacquei di Cala Gadir e di Cala Tramontana ed esegue gli scavi nel porto di Scauri.
E così i due iniziano ad annusarsi, a raccontarsi prima le proprie esperienze, poi le proprie sensazioni e le proprie convinzioni ed alla fine i propri segreti. Ed insieme iniziano prima a sognare e poi a progettare.
Le anfore, quelle sottratte e quelle nascoste dal mare, si trovano a profondità diverse ma circoscritte in una determinata zona, prossima a dei punti di ancoraggio e di approdo, riparo dalle intemperie e dalla violenza del mare nostrum. I ceppi di ancora si trovano anch’essi nella stessa zona, adagiati su un fondale sabbioso quasi come se fossero affiancati tra di loro pur con una certa distanza l’una dall’altra. Inoltre giacciono a profondità insolite, non consone ad un normale ormeggio. Poi ci sono queste pietre, molto diverse rispetto alle rocce laviche pantesche, sassi molto grandi, finemente levigati, parallelepipedi adagiati uno a fianco dell’altro.
La zona di mare che comprende Cala Tramontana e Cala Levante ha dato ormai chiari segnali che secoli fa sia successo qualcosa di molto importante.
Il progetto ha un nome, Pantelleria Ricerche, una società consortile fortemente voluta dai due e partecipata dal centro immersioni di cui il subacqueo ne è diventato il direttore tecnico e dalla società di scavi archeologici di cui l’altro ne è diventato il direttore scientifico.
Iniziano interminabili immersioni di sopralluogo, ore infinite sott’acqua, nel silenzio appena scalfito dal rumore pesante delle bolle. Iniziano i lavori di delimitazione della zona interessata, metri e metri di cime dipanate sul fondale e picchetti puntati sulla sabbia. E poi minuti di decompressione, che sommati diventano ore. Indagini fatte a spese loro; impegno di denaro, di tempo, di mezzi tecnici personali. Soprattutto impegno di passione.
La costanza, la testardaggine, la perseveranza, il coraggio e l’entusiasmo vengono ripagati. Le istituzioni prima si interessano in modo sommario e poi sposano la causa. Subacquei appassionati che ricoprono ruoli istituzionali di rilievo diventano sponsor principali; sano mecenatismo in un mondo dove purtroppo troppo spesso la miglior paga è la semplice gloria.
Il pomeriggio del 22 giugno l’esploratore subacqueo Francesco Spaggiari, “Chicco” per gli amici e per tutto il mondo che gravita attorno alla subacquea, direttore tecnico del Diving Cala Levante e di Pantelleria Ricerche insieme a Leonardo Abelli, archeologo e direttore scientifico di Ares Archeologia e di Pantelleria Ricerche si immergono nelle acque di Cala Tramontana per una delle tante perlustrazioni del sito, fondamentali supervisioni per rendersi conto della distribuzione dei reperti che le precedenti ricerche di Chicco avevano evidenziato.
L’acqua del mare ha la stessa limpidezza di duemila anni fa. La luce del sole ha ancora la stessa potenza e spinge i propri raggi giù nel buio profondo, a baciare gli scogli sommersi, immobili da secoli. All’improvviso un bagliore, una linea di luce verdognola riflessa manda un segnale. L’occhio vigile e attento del subacqueo cattura il richiamo: neoprene mescolato ad adrenalina, silenzio di bolle e respiro sospeso. La mano si allunga ad accarezzare la sabbia all’ombra di una pietra vulcanica rotolata negli abissi quando ancora quest’isola aveva da conformarsi così come oggi ci appare. E si ferma lì, su quel ciondolo addormentato dal tempo, fermo tra le dita. E’ una moneta bronzea e, sotto un velo di sabbia, ce n’è un’altra piccola manciata.
L’esploratore sta toccando la propria storia; ricoperto di modernissima attrezzatura rimane sospeso, in assetto, immerso nell’antichità: ora sono con lui i millenni passati, milioni di giorni trascorsi, di navi veleggianti, di nuotatori ignari, di mareggiate omertose che niente hanno colto e nulla hanno rivelato prima. Decine di monete, forse di un tempo prosperoso e lontano, di divinità e di merci preziose. La scoperta di un tesoro.
Riportate in superficie, l’occhio dell’archeologo scopre che le monete sono tutte identiche, figlie di uno stesso conio. Recano la testa di una donna con lo sguardo rivolto verso sinistra, cinta da una corona di grano. Sul rovescio è stampata una testa di cavallo.
Il giorno successivo, viene organizzata una squadra, una formazione coesa di subacquei e di archeologi, assetati di scoperta, vogliosi di ricavarsi quel piccolo spazio nella storia di Pantelleria che millenni fa un pugno di marinai cartaginesi si ricavarono inconsciamente pagandolo probabilmente con la propria vita. Inizia così una ricerca che in pochi giorni permette di riportare alla luce il tesoro, uno dei tanti segreti che Rino Gabriele, quell’uomo aspro e scorbutico chiamato dai suoi amici il “Nonno”, anni prima aveva detto a Chicco che il suo mare nascondeva.
L’effige della donna raffigurata è quella della Dea Tanit, nella mitologia cartaginese dea della fertilità, dell’amore e del piacere. Tanit era la dea che deteneva il posto più importante a Cartagine e significativamente, per una città prettamente commerciale, la sua effigie compariva nella maggior parte delle monete della città punica. Il cavallo potrebbe invece essere stato il simbolo della città di Cartagine. La presenza del cavallo potrebbe anche essere ricondotta alla ben nota leggenda di Didone nella fondazione di Cartagine oppure all’esumazione della testa dell’animale quale presagio favorevole alla fondazione di una città libera e potente, tema siracusano di vittoria.
Il Professor Giorgio Spanu dell’Università di Sassari ha immediatamente riconosciute le monete come provenienti da una zecca punica, alcune di esse addirittura appena coniate.
La prima ipotesi formulata è quella secondo la quale le monete potessero essere a bordo di una nave da guerra e che potessero servire per il pagamento delle milizie mercenarie cartaginesi impegnate in Sicilia. Il periodo storico in questione potrebbe essere quello a cavallo tra la prima e la seconda guerra punica. Ci potremmo addirittura trovare di fronte ai resti archeologici di un evento narrato da fonti storiche.
Infatti Polibio descrisse la conquista romana di Pantelleria avvenuta nel 217 avanti Cristo, quando la flotta guidata dal console Tiberio Sempronio Longo riconquistò l’isola ponendo definitivamente fine al predominio cartaginese nel Canale di Sicilia.
La flotta da guerra romana che aveva inseguito quella punica sino alle porte del porto di Cartagine, sulla rotta del ritorno, favorita da venti di provenienza meridionale, raggiunse Pantelleria prendendone il controllo. L’unica via di fuga per le navi cartaginesi potrebbe essere stato quello di cercare riparo presso la costa settentrionale, da Cala Gadir a Cala Tramontana, nella speranza che le navi romane, provenienti da sud, trovando il porto sguarnito, continuassero la loro rotta verso la Sicilia. Per essere pronti alla fuga, potrebbero aver cercato di ormeggiare a profondità inusuali, dove la costa offre poche possibilità di riparo. A quel punto, forse dopo aver avvistato le navi nemiche in avvicinamento, potrebbero aver tagliato le cime degli ormeggi, alleggerito il carico e tentato la ritirata.
Secondo Leonardo Abelli, questa tesi giustificherebbe il ritrovamento avvenuto negli anni, da parte di Francesco Spaggiari, dei cumuli sparsi di anfore, delle trentadue ancore una in fianco all’altra a profondità che vanno dai cinquanta ai settanta metri e dei parallelepipedi in roccia del tutto diversa da quella dell’isola.
Resta un dubbio: “perché i cartaginesi in fuga, dopo aver tagliato le cime degli ormeggi ed alleggerito il carico, gettarono in mare un tesoro di tali proporzioni?”
“E’ possibile che nella fuga una delle navi della flotta cartaginese, quella che aveva in custodia il carico di monete, possa essere stata abbattuta?”
“E se fosse affondata a Cala Tramontana, dove potrebbe trovarsi la carcassa in legno del relitto?”
Domande e dubbi che ci fanno sperare che il mare di Pantelleria, sotto il suo velo turchese, nasconda ancora dei segreti.
Domande e dubbi che animano la fame insaziabile di scoperta di due amici approdati a Pantelleria per realizzare il loro sogno.
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